La drammaturgia delle luci

I mestieri del teatro: i ricordi dei “luciai” alle prese con la modernità

Sono appostati in fondo alla platea, seduti a tavoli ingombri, attrezzati di monitor e  complicate tastiere, e fili elettrici tanti da scavalcare. Alcuni provvisti di cuffie alle orecchie, altri di proiettori luminosi. Rassicuranti torri di controllo della scena, a volte a fianco del regista, a volte con l’implicita consegna di farne le veci durante lo spettacolo, o di monitorarne lo sviluppo in sua assenza. Sono i tecnici della luce e del suono, guardati  con sospetto dagli attigui spettatori, preoccupati di fastidiose quanto improbabili interferenze.

“Quando prendono posto vicino a me-dice Franco Patimo, fonico di fiducia di Gigi Proietti, passato al teatro di prosa dopo una gavetta nel campo della musica dal vivo-, con l’aria tra il preoccupato e l’infastidito, mi chiedono, ‘ma non è che con tutti questi apparecchi fate un sacco di rumore e io non riesco a sentire niente?’ Bene, colgo l’occasione per dirlo una volta per tutte: questo è il posto dove si sente meglio, quasi sempre. Purtroppo però vicino a noi c’è la regia delle luci: e quella sì che è brutta gente”.

Naturalmente si scherza, ma immaginiamo che la ragione del contendere sia lo spazio deputato alle rispettive postazioni, e un sacrificio reciproco che non deve compromettere l’esito complessivo.

“La verità- corregge Patimo, da cinque anni docente di tecniche di ripresa, registrazione e riproduzione del suono all’interno del Master di Ingegneria del Suono all’Università di Torvergata- è che i fonici sono gli ultimi arrivati, in ordine di tempo, e suscitano quindi la diffidenza dei vecchi. Ma è soltanto uno scherzo”.

Con il regista invece “mi rapporto con la massima attenzione e la massima dedizione. Mi spiego: è dal regista che posso cogliere il senso ultimo del progetto al quale la mia esperienza è finalizzata: il mio lavoro è per il regista, anche se è con il musicista che ho spesso maggiori affinità e più facilità di linguaggio”.

Come i musicisti infatti, preferisce “evitare l’effetto registrato, che è sempre meno convincente. Ma bisogna comunque decidere di volta in volta”, anche in relazione alla destinazione dello spettacolo.

“Uno spazio chiuso, per esempio, aggiunge al suono un qualcosa che arricchisce di carattere la voce o lo strumento (un arricchimento su cui contano sia l’attore sia il musicista). Inoltre il suono di un teatro ‘adeguato’ aiuta il pubblico a percepire le posizioni relative (vicino e lontano, voci fuori campo, suoni di cui è importante cogliere la provenienza), potenziando l’effetto drammatico, e ammorbidisce e completa i suoni di risonanze controllate da ‘sapienti’ architetture. All’aperto invece dobbiamo ovviare con i riverberi digitali. E qui è evidente la comodità del computer: infinite possibilità in pochissimo spazio”.

“La tecnologia moderna-concorda Iuraj Saleri, tecnico luce di lungo percorso- ci permette di ottenere effetti inimmmaginabili, un po’ di anni fa”. 

Dai suoi esordi, negli anni ’60, il lavoro del tecnico è profondamente cambiato, e benché lui continui a definirsi un ‘luciaio’, ammette che gli apparecchi utilizzati un tempo per ottenere, per esempio, gli effetti del mare o delle nuvole, oggi sono ‘archeologia’.

La svolta, “da quando in Italia sono arrivati i sagomatori, verso la fine degli anni ’60:   proiettori a due lenti che permettono di riprodurre su un muro, o su una qualunque superficie piana, un’immagine in modo preciso”. Mi fa capire che, grazie alla presenza della seconda lente, è possibile riprodurre delle matrici di metallo in modo preciso. Un’operazione impossibile con i  proiettori di prima generazione, a una lente sola: quelli dalla fonte luminosa circolare (si pensi a una torcia), che  proiettavano sul muro un cerchio sfocato.

Insomma, discorsi da addetti ai lavori, subito incalzati da un susseguirsi di ricordi  ‘dietro le quinte’. Carmelo Bene che per Nostra Signora dei Turchi voleva delle “strisciettine di luce piccole piccole che oggi avremmo ottenuto in pochi minuti, e che allora, avevano richiesto un lavoro di giorni”. Saleri era assistente di Silvano Paglia e ricorda che avevano dovuto “bandierare il proiettore, cioè chiudere il cerchio da destra e sinistra”, per ricavarne una striscia di luce comunque sfocata. E intanto il tempo passava, e al Teatro delle Arti di via Sicilia, oggi chiuso, loro ci passavano anche le notti.

Succedeva anche con Orazio Costa, “una settimana ininterrotta in teatro, senza mai uscire, confondendo il giorno e la notte, e dormendo in terra, quando capitava”.

“Non ho mai capito perché all’epoca le luci si facevano di notte, anche quando si lavorava in spazi chiusi, ma era soprattutto folclore. Oggi questa tendenza si è molto limitata, a causa dei costi”.

Si è invece fatta avanti l’idea di una drammaturgia delle luci, si è approfondito lo studio e la messa a punto di criteri non solo di puro servizio e utilità contingente, ma    

espressione di un punto di vista, di un gusto, di un’estetica personale. “Il deus ex machina dello spettacolo-spiega ancora Saleri-, resta sempre il regista, ma sulla base della sua idea e delle sue intenzioni, noi avanziamo le nostre proposte”.

Per questo “cerco sempre di assistere alle prove, di vedere e capire come muove lo spazio, se il taglio dello spettacolo sarà, per esempio,  naturalistico o surreale”.

E siamo dinuovo ai ricordi, quelli con Federico Tiezzi “a cui devo molto della maturazione della mia cultura visiva e del mio bagaglio iconografico”, e quello pieno di nostalgia, con Annibale Ruccello, lentamente convertito a una sua proposta ‘espressionista’ per il Ferdinando, lo spettacolo con Isa Danieli di cui Ruccello fu autore e regista. Saleri voleva evocare un tramonto d’interno, una stanza cupa con la vecchia contessa e il presunto nipote, attraverso “un raggio luminoso rosso violaceo”. “No, è troppo finto” gli disse Ruccello. “Poi glielo mostrai durante le prove e lui si convinse: forse hai ragione”.

Pubblicato su Europa carta il 13-8-2009

Link Mestieri del teatro:

musica Germano Mazzocchetti

scene Mimmo Paladino

costumi Santuzza Calì e Sandra Cardini

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